Introduzione
"Grazie", "Complimenti", "Perdono",
"Caro", "Condoglianze" e tante altre forme del linguaggio quotidiano -
nelle diverse lingue - celano in sé profondi insegnamenti per la conoscenza filosofica
dell'uomo.
Al di lá dell'eventuale formalismo vuoto -
verso dove l'uso giornaliero tende a scagliarle - queste espressioni così apparentemente
inoffensive, incidono originariamente su importanti dimensioni della realtà umana.
Dalla discussione metodologico-tematica sul
linguaggio e dall'antropologia filosofica (guidati dal classico S. Tommaso d'Aquino),
queste formule di convivenza si mostrano come messaggi cifrati, alle volte infinitamente
sorprendenti e saggi... Come dice S. Isidoro di Siviglia, senza l'etimologia non si
conosce la realtà e con essa si può più rapidamente raccapezzare la forza espressiva
delle parole(1).
In verità le parole hanno un potenziale
espressivo molto maggiore di quanto noi - così automatico è l'uso che d'esse facciamo -
possiamo immaginare. Perciò l'attenzione del filosofo per i modi di dire, per i contesti,
le sottigliezze del linguaggio comune, nella sua stessa lingua od in altre.
Alcuni punti metodologici
Quando la filosofia si rivolge al linguaggio
comune, non compie un procedimento periferico, ma qualcosa di molto speciale appartenente
al proprio nucleo della riflessione filosofica. L'analise delle forme quotidiane è
importante anche dal punto di vista dell'educazione, se veramente vogliamo che
l'educazione trascenda l'ambito meramente formalista e sia un processo d'autentica
auto-realizzazione nel quale il subietto s'appropria del contenuto e del significato
antropologico che soggiace alle forme.
Tale appropriazone, dicevamo, non è facile ne
immediata. La nostra propensione è piuttosto quella dell'ottundimento e dell'oblio del
profondo senso originario che si è concretizzato in questa od in quella formulazione.
Perciocché sempre vige quella verità
fondamentale messa in rilievo tanto dall'antropologia occidentale come dall'orientale:
l'uomo è essenzialmente l'essere che oblia!(2).
E così il linguaggio, la favella vivente del
popolo, risulta in molti casi depositaria delle grandi esperienze dimentiche.
E se vogliamo riscattare il senso umano che
esse celano, dobbiamo rivolgerci criticamente a questo deposito...
Non deve poi stupire che in un autore classico
come S. Tommaso d'Aquino troviamo una filosofia intimamente compromessa col linguaggio.
In questo senso è opportuno ricordare alcuni
dei suoi principi metodologici.
1) Le nostre parole spesso solo attingono frammentariamente - Tommaso
usa l'avverbio divisim - la realtà che è complessa, che supera di molto la
capacità intelletuale umana. D'altronde è di Tommaso l'acuta osservazione che
"nessun filosofo giammai è arrivato ad esaurire l'essenza d'una mosca". Al
contrario di Dio, che esprime tutto in un unico Verbo, "noi dobbiamo esprimere
frammentariamente le nostre conoscenze con molte ed imperfette parole"(3).
2) Un altro fenomeno interessante, anch'esso legato alle limitatezze
della nostra conoscenza e del nostro linguaggio, è quello che potremmo chiamare: l'effetto
girasole. Questo è così spiegato da Tommaso: "giacché i principi essenziali
delle cose sono da noi sconosciuti, spesso per significare l'essenziale (che non
raggiungiamo) le nostre definizioni incidono su un aspetto accidentale"(4).
Così, per esempio, tutto l'essere della pianta che chiamiamo girasole è designato da un
fenomeno-gancio, accidentale e periferico, nel caso, l'eliotropismo.
3) E così anche non sfugge al Aquinate il fatto che spesso è
differente il gancio, il cammino per il quale ogni lingua accede ad una determinata
realtà: lo stesso oggetto che mi protegge contro l'acqua (parapioggia, paracqua, paraguas,
parapluie, guarda-chuva) causa ombra (ombrello, umbrella, sombrinha).
Perciò dice Tommaso che "differenti lingue esprimono la stessa realtà di modo
diverso"(5).
"Molte grazie"- i tre livelli di gratitudine.
Dicevamo che la limitatezza della conoscenza umana si riflette
nel linguaggio: non possiamo esprimere quello che le cose sono nella misura in cui non
sappiamo completamente cosa sono. Oltre a ciò, una parola spesso da rilievo
originariamente a solo uno fra molti aspetti che offre la realtà designata.
E può ocorrere che col passar del tempo
questa realtà cambi, evolva sostanzialmente fino a perdere la connessione con l'etimo
della parola che rimane la stessa.
Questo non ci lascia sbalorditi perché
nell'uso quotidiano le parole vanno perdendo trasparenza: noi diciamo insalata di riso
(in Brasile si parla anche della dolce "insalata di frutta"! - che in italiano
si dice "macedonia di frutta" - perché coinvolge mescolanza) e non notiamo più
che insalata viene da sale.
Dello stesso modo il barbiere oggigiorno quasi
non fa più barbe ma taglia i capelli; come anche la tintoria indica un negozio che
provvede alla smacchiatura, lavatura e stiratura di abiti dove quasi non si tingono
più tessuti; come il cameriere indica più chi serve a tavola che chi è addetto alla
pulizia delle camere; od anche il villano che dal indicare l'abitante della compagna, il
contadino, indica oggidì la persona rozza, priva di garbo e cortesia; il chauffeur
non riscalda ma dirige la vettura; e neanche per sogno ci verrebbe per la testa
d'associare "capitale", somma di denaro che frutta interesse con capo (dal lat. caput,
capitis).
Se queste incompatibilità non ci causano
stranezza, è perché il linguaggio si è tornato opaco per noi.
E così diciamo collare, collaretto,
collarino, torcicollo, capocollo, a rompi-collo (precipitosamente), il rompicollo (persona
sconsiderata), scollare, scarpa scollata (che lascia scoperto il collo del piede), e non
ci accorgiamo che derivano da collo (perciò l'espressione "portare un bambino in
collo"(6) sembra incomprensibile di primo acchito).
Queste considerazioni sono preliminari
importanti allo studio della gratitudine e delle varie formulazioni che essa riceve nelle
diverse lingue.
Tommaso d'Aquino insegna che la gratitudine è
una realtà umana complessa (e perciò sussegue che la sua espressione verbale sia in ogni
lingua frammentaria: questo o quel aspettogancio è accentuato): "La gratitudine si
compone di diversi gradi. Il primo consiste nel riconoscere (ut recognoscat) il
beneficio ricevuto; il secondo consiste in lodare e render grazie (ut gratias agat);
il terzo consiste in retribuire d'accordo con le possibilità e secondo le circostanze
più opportune di tempo e luogo" (II-II, 107, 2, c).
Questo insegnamento, apparentemente così
semplice, può essere rincontrato nei diversi modi con cui le diverse lingue si valgono
per ringraziare: ognuna accentuando un aspetto della multiforme realtà della gratitudine.
Alcune lingue esprimono la gratitudine
prendendola nel primo livello: esprimendo più nitidamente la riconoscenza di chi ha
ricevuto la grazia. Per di più riconoscenza (come reconnaissance in
francese) è proprio un sinonimo di gratitudine.
In questo senso è estremamente interessante
verificare l'etimologia: nella saggezza della lingua inglese to thank (ringraziare)
e to think (pensare) sono nella sua origine, e non per caso, la stessa parola.
Al definire l'etimologia di thank l'Oxford
English Dictionary è chiaro: "The primary sense was therefore thought"(7).
E nello stesso modo in tedesco danken (ringraziare) è originariamente denken
(pensare).
Tutto questo è insomma molto comprensibile,
poi come tutti sanno, solo si sente veramente grato chi pensa nel favore che ha ricevuto
come tale.
Solo è grato chi pensa, pondera, considera la
liberalità del benefattore. Quando questo non ocorre, viene il giustissimo rammarico:
"Che mancanza di considerazione!"(8).
Perciò S. Tommaso - facendo notare che il
massimo negativo è la negazione del grado infimo positivo (l'ultima a destra di chi sale
è la prima a sinistra di chi scende...) - afferma che la mancanza di riconoscenza,
l'ignorare, è la suprema ingratitudine(9): "il malato che non
si rende conto del morbo, non si vuol curare"(10).
L'espressione araba di ringraziamento, shukran,
shukran jazylan, si trova direttamente nel secondo livello: quello di lode del
benefattore e del beneficio ricevuto.
Già la formulazione latina per gratitudine, gratias
ago, che si è proiettata nel italiano grazie, nel castigliano (gracias)
e nel francese (merci, mercè)(11) è relativamente
complessa. S. Tommaso dice (I-II, 110, 1) che il suo nucleo, grazia, comporta tre
dimensioni:
1) ottenere grazia, entrare nelle grazie, nei favori, nell'amore di
qualcuno che dunque ci fa qualque beneficio;
2) grazia indica anche un dono, qualcosa di non dovuto, gratuitamente
dato, senza merito da parte del beneficiario;
3) la retribuzione, "fare grazie" (render grazie) da parte
del beneficiario.
Nel trattato De Malo (9,1) si aggiunge
un quarto significato di gratias agere: quello di lode; chi considera che il bene
ricevuto procede da un altro e che deve essere lodato.
Nel ampio quadro che abbiamo mostrato in vista
- quello delle espressioni di gratitudine in inglese, tedesco, francese, castigliano,
italiano, latino ed arabo - rissalta il carattere profondissimo della forma portoghese:
"obrigado".
La formulazione portoghese, così incantevole
e singolare, è l'unica a trovarsi chiaramente nel più profondo livello di gratitudine di
cui parla S. Tommaso, il terzo (che naturalmente racchiude in sé i due anteriori): quello
del vincolo (ob-ligatus), del obbligo, del dovere di retribuire.
Possiamo adesso analizzare la ricchezza che
racchiude in sé anche la forma giapponese per ringraziamento: Arigatô.
Questa rimette ai seguenti significati
primitivi: "l'esistenza è difficile", "è difficile vivere",
"rarità", "eccellenza (eccellenza della rarità)". I due ultimi sensi
sopra riferiti sono comprensibili: in un mondo in cui la tendenza generale è quella
d'ognuno pensare a sé e, se tanto, i rapporti umani si regolano per la stretta e fredda
giustizia, "l'eccellenza" e la "rarità" si fanno notare come
caratteristiche del favore.
Ma "difficoltà d'esistere" e
"difficoltà di vivere", a prima vista niente hanno a che vedere col
ringraziamento. Tuttavia S. Tommaso insegna che la gratitudine deve - per lo meno
nell'intenzione - superare il favore ricevuto. E che ci sono debiti per natura
insaldabili: d'un uomo in relazione ad un altro suo benefattore, e sopratutto in relazione
a Dio: "Che cosa renderò al Signore - dice il Sal 115 - per quanto mi ha
dato?".
In queste situazioni di debito impagabile -
così frequenti alla sensibilità di chi è giusto - l'uomo riconoscente si sente in
imbarazzo e fa tutto quello che è alla sua portata (quidquid potest), tendendo a
spandersi in un excessum che si sa insufficiente(12) (cfr.
III, 85, 3 ad 2).
Arigatô si riferisce così al terzo
grado di gratitudine, significando la coscienza di quanto difficile diviene l'esistenza
(dal momento in che si è ricevuto tale favore immeritato, e perciò si è rimasti nel
dovere di retribuire, sempre impossibile di compiere...).
Sinonimi?
San Tommaso è molto stretto nell'uso della parola
"sinonimo": per lui sono sinonime soltanto parole di significato assolutamente
equivalente, cioè, che non solo indicano la stessa realtà (res) ma anche lo
stesso aspetto, la stessa ratio. Dice per esempio nella Contra Gentiles:
"Nonostante queste parole significhino la stessa realtà non sono sinonime
perché non la focalizzanno sotto lo stesso aspetto"(13).
Così, per Tommaso, due (o più parole sono
sinonime) se (e solo se...) in qualsiasi contesto possono essere commutate senza
alterazione reale di senso: l'esempio che ci da, nel Commentario alle Sentenze, è tunica,
vestis e indumentum. Qualsiasi cosa che si affermi (o neghi) di tunica
sarà affermato (o negato) anche di vestis(14). Sarebbe come
cambiare "sei" per "mezza dozzina"...
Noi oggi con meno precisione ammettiamo come
sinonime giustamente parole che - sebbene con titoli differenti o enfasi - si riferiscono
alla stessa realtà. Così di "sinonimo" ci dice il dizionario brasiliano Aurélio:
"parola che ha quasi (sic) la stessa significazione di un altra". Già il
Larousse è più esplicito: "mots qui se présentent dans la langue avec
des sens très proches et qui se différencient entre eux par une nuance (trait
particulier)".
Già l'Oxford distingue e registra due
sensi, quello stretto e quello lato: "Synonym - 1. Strictly, a word having the
same sense as another (in the same language); but more usually, either or any of
two or more words (in the same language) having the same general sense, but possessing
each of them meanings which are not shared by the other or others, or having different
shades of meaning or implications appropriate to different contexts: e.g. serpent,
snake; ship, vessel etc."
Per Tommaso, al contrario, come dicevamo, due
parole possono riferirsi alla stessa ed unica realtà e nonostante non essere sinonime:
perché differenti sono le sue rationes. È il caso per esempio dei diversi nomi
con i quali designamo a Dio od ai suoi attributi (Creatore, Onnipotente, la Bontà, la
Giustizia ecc.): tutti incidono sulla stessa realtà, ma non sono sinonimi(15).
Sia come sia, dal punto di vista metodologico
sono di speciale interesse per il filosofo due punti:
1) la ricerca di contesti del linguaggio comune in cui una parola non
può - senza alterazione del senso - essere sostituita da nessun "sinonimo":
questo è un fecondo procedimento per scoprire la realtà antropologica significata dal
vocabolo.
2) Il secondo punto a distaccare è il fatto che ogni
"sinonimo" ha la sua ratio, si riferisce a un determinato aspetto
differente della stessa ed unica realtà: così come quando parliamo di "casa",
focolare", "domicilio", "residenza", "abitazione",
"dimora" o "reggia". In sé la realtà a cui si riferiscono queste
parole è la stessa ed unica edificazione - nella via tale, numero tale -, però nessuno
dice "domicilio, dolce domicilio", neanche la prefettura riscuote le tasse sul focolare
ecc.(16).
Questa molteplicità di forme del linguaggio
per la stessa res ha importanza nell'analisi che Tommaso fa del amore.
"Mio caro"
La ricchezza (e la precisione) del vocabolario
vivo riguardante un determinato soggetto in una lingua denota l'interesse vitale dei
parlanti per quel tema. In questo senso si noti per esempio (in Brasile o in Italia)
l'incredibile dettagliare del lessico riguardante il calcio: calcio atletico, calcio
bailado, calcio totale, calcio parlato, calcio giocato.
Nello stesso modo S. Tommaso presenta
distinzioni fra i diversi "sinonimi" d'amore in latino, interessanti dal punto
di vista dell'antropologia filosofica. Così al affermare (in I Sent. d 10, q 1, a 5) che
lo Spirito Santo è amor o caritas o dilectio del Padre e del Figlio,
precisa che amor indica la semplice inclinazione dell'affetto per l'amato, mentre dilectio
("come la propria etimologia indica") presuppone la scelta e quindi è
razionale. Già caritas, obietto di particolare studio in questo topico, accentua
la veemenza dell'amore (dilectio) mentre si tiene l'amato per un prezzo
inestimabile ("inquantum dilectum sub inaestimabili pretio habetur"),
nello stesso senso che si dice che le cose (il costo della vita, le compre) sono care
("secundum quod res multi pretii carae dicuntur").
Qui c'è un fatto sorprendente e molto
suggestivo. Non è per caso che anche in altre lingue si usa la stessa ed unica parola per
dire: "mio caro amico" e "i fagioli sono cari" ("my dear
friend", "beans are too dear"; "mon cher ami" e
"haricots sont trop cher"; "meu caro amigo" e "o
feijão está caro"; "mein teurer Freund" e "Bohnen sind
teuer").
Per il realismo medievale, non c'è nessun
stupore per la parola "carità", scelta per designare l'amore di Dio (e l'amore
del prossimo per Dio), essere la parola precristiana legata al danaro, ai prezzi: carità,
l'amore per l'amato, insiste Tommaso, indica quello (una cosa, un oggetto) che
consideriamo d'inestimabile prezzo, come carissimo:
"Caritas dicitur, eo quod sub
inaestimabili pretio, quasi carissimam rem, ponat amatum caritas" (In III Sent.
d.27, q.2, a.1, ag7).
Così, quando diciamo "mio caro
amico" o "carissimo tizio" ci serviamo di metafore di prezzo (perciò
anche: apprezzare, pregiato, disprezzo, spregevole, spregio, pregiare), di stima, di
stimare...
Guarda caso, in questa medesima linea si situa
la formula di cortesia araba dinanzi un amico che dice che va a chiedere qualcosa: "Anta
gally wa talibuka rakhiz" ("tu sei caro e la tua richiesta è a buon
mercato").
E quando noi ci ricordiamo che Cristo compara
il Regno dei Cieli ad un tesoro che un uomo ha trovato in un campo o ad un mercatore che
cerca pietre preziose e che l'ottenimento di questo bene richiede la vendita di tutto il
resto, non ci sorprenderà che "carità"sia la parola per designare il bene apprezzato.
"Complimenti"
Ci rivolgiamo adesso ad un'altra situazione
del quotidiano, quella delle felicitazioni, cercando di riscattare il senso originale dei
voti di congratulazione.
Seguendo il procedimento medievale, resteremo
attenti all'etimologia.
Quando trascendiamo l 'ambito delle formalità
e della consuetudine, i voti di felicitazioni: "Auguri!" (e i suoi confratelli
in altre lingue: lo spagnolo Enhorabuena!, l 'inglese Congratulations!, il
portoghese Parabéns!, ecc.), vediamo che portano con sé differenti e
complementari indicazioni sul mistero dell'essere e del cuore umano.
Cosa significano esattamente queste
formulazioni? Cosa veramente vogliamo dire quando diciamo "auguri" o "congratulations"
ecc.? Tutte queste espressioni portano con sé un profondo significato, per così dire,
"invisibile ad occhio nudo".
Cominciamo per la formula castigliana: Enhorabuena!,
letteralmente "in buona ora". Enhorabuena indica che un determinato
cammino (gli anni di studio che sboccano in una laurea, l'arduo lavoro per stabilire
un'impresa che si inaugura ecc.) arriva in quest'ora in cui si danno le felicitazioni al
suo termine: questa è veritieramente l'ora buona, enhorabuena!
Precisamente il fatto d'essere l'ora della
conclusione è quello che la fa una buona ora. La saggezza degli antichi ci parla
"dell'ora d'ognuno", delle ore buone e cattive. Ma la buona ora, l'ora migliore,
è quella della conclusione, della consumazione dell'opera, quella del buon termine del
cammino, l'ora della fine, che è migliore che quella del cominciamento: "Melior
est finis quam principium" (Ecl. 7, 8), dice la propria Sapienza divina.
Già la formulazione inglese, anche presente
in tedesco e in altre lingue, congratulations, esprime l'allegria per il bene
dell'altro con il quale ci congratuliamo, cioè ci co-allegriamo. Questa communione
d'allegrezza è suggerita anche per la forma deponente dei verbi latini gratulor e con-gratulor.
La forma deponente indica che l'azione descrita nel verbo non è attiva ne passiva: ma
un'azione che, esercitata dal soggetto, ripercuote in sé stesso. Vuol dire, nel caso, che
l'allegria che esterniamo al felicitare tale persone è anche, a titolo proprio, molto
nostra.
L'arabo mabruk ricorda il carattere di
benedizione con che felicitiamo altrui.
Con l'incantevole forma portoghese "Parabéns"
si esprime precisamente questo: che il bene conquistato, che la meta raggiunta sia
adoperata per il bene: "parabéns". Poiché qualsiasi bene ottenuto (il
dono della vita, soldi o la conquista di un diploma) può, come tutti sanno, essere
adoperato sia per il bene che per il male.
L'italiano "auguri, auguri tanti!"
annuncia (o cagiona) che questo bene celebrato è solo preannuncio, prefigurazione,
augurio di altri ancora maggiori che stanno per venire.
"Le mie condoglianze"
"Adossavo una tristezza..." dice l'antica samba di
Paulinho da Viola: la tristezza è - evidentemente - un peso, gravità, la famosa
gravezza...! E per caricare il peso del dolore, della tristezza, niente di meglio -
insegna Tommaso - che l'aiuto degli amici: "perché la tristezza è come una carica
pesante che si torna più leggera per caricare quando condivisa da molti: perciò la
presenza degli amici è così apprezzata nei momenti di dolore"(17).
Così si comprende immediatamente che l'espressione di condoglianze ("dolersi
con") sia in portoghese (e in altre lingue) "pêsames", che
letteralmente vuol dire "mi pesa" ("io t'aiuto a caricare il peso della tua
tristezza").
"Perdonami"
"Perdonare" è una forma tardiva che non si
trova in S. Tommaso. La parola corrispondente ed usuale da lui usata è parcere.
Tuttavia troviamo in S. Tommaso le ragioni filosofiche che giustificano la grandiosa
etimologia delle forme moderne: "perdonare", "perdono", "pardon",
"pardonner", "perdão" ecc.
Il prefisso per accumula i sensi di
"per" (attraverso di") e di pienezza, grado massimo: come in perdurare
(durare completamente); perlucido (completamente luminoso); perfrigerare
(rinfrescare intensamente); perorare (orare, parlare intensamente); permanganato
(sale dell'acido in cui il manganese esplica la sua massima valenza di sette) ecc.
E così il perdono appare come il superlativo
di donazione. Lo stesso occorre con le forme inglesi e tedesche: for-give, vor-geben.
Come l'Aquinate pensa il tema del perdono e
come lo rapporta al massimo di donazione? Ci sono influenze bibliche e liturgiche. Nella
liturgia Tommaso s'impressiona con l'orazione spesso da lui citata, della messa della X
domenica dopo la Pentecoste (e ancora oggi preservata nella XXVI domenica del tempo
comune), che dice: "Deus qui omnipotentiam tuam parcendo maxime manifestas"
("Dio che manifesti la tua onnipotenza massimamente perdonando...").
E afferma che il perdono di Dio è un potere
superiore a quello di creare i cieli e la terra (II-II, 113, 9, sc).
D'altra parte lui vede nella traduzione latina
della Lettera agli Efesini: "siate anche scambievolmente benevoli, misericordiosi,
'donandovi' tra voi come anche Dio ha 'donato' a voi per Cristo" (Ef 4,32)(18).
Ed in II Cor 2:10 "A chi voi 'donate' 'dono' anch'io, perché quello che io ho
'donato' ecc."(19). Tommaso non ne ha dubbi: il donare per
eccellenza non è donare soldi o tempo o qualcosa d'altro, ma si perdonare(20).
E conclude, con la sua abituale sobrietà, com
suggestivi id est: "Donate, id est parcite" (Super II ad
Cor. cp 12, lc 4) e "Donantes, id est parcentes" (Super ad
Coloss. cp 3 lc 3).